A Montecalvo Irpino - Av,
in un ambiente domestico come questo, mia madre panificò per 40 anni per farci uomini a me e a mio fratello.
Il forno di cui si servì era uno dei 4 forni pubblici del paese (quello di Angilélla sciacquaglìna, poi passato a sua figlia Pippinèlla, a la vija 'lu mont).

Poi, nel 1965, costruimmo il nostro forno, annesso alla nostra nuova casa in campagna, alla costa della mènola, dopo il terremoto del 1962.
Vissi per 25 anni in una casa rurale, avente un ambiente-cucina simile a questo e ne posso descrivere minuziosamente, in dialetto, angoli, oggetti e relativo uso.

Oggetti da sin.: "buffètta, sèggia, fazzatóra 'ncòpp'a la chjanca, prisu, caccavèddra, cimminìja cu spèrchju, cupiérchju d'allumìniju e vasèttu 'ncòpp'a lu cirmàle, tréppiti e ruvàgna appés'a lu muru, dóji sèggi, stipèttu cu cistiéddri e cupiérchji, n'ati dóji sèggi 'mpagliàti e matunèlli 'n terra" - tavolo, sedia, madia su panca, vaso e pentola in terracotta, caminetto con specchio, coperchio di alluminio e vasetto sul ripiano, treppiede e oggetti appesi al muro, due sedie, stipetto con cestelli in vimini e canne e coperchi, altre due sedie impagliate, e mattonelle del pavimento.


Probabilmente sotto il solaio è appesa una pertica in legno coi salumi, che qui non si può vedere. 
Quello della panificazione era un'attività svolta in ogni ambiente, sia in campagna che in paese, perché in passato il pane era l'alimento fondamentale in una dieta ricca di carboidrati e piuttosto povera di proteine animali, e nel mondo patriarcale competeva solo alle donne. Il maschio aveva la mansione di procurare e trasportare con l'asino le fascine per imbiancare il forno. Anche a infornare "lu ppane cu la palumméssa", il pane con la pala di legno, era "la furnàra", la fornaia.
Questa figura femminile nella foto, che affonda con forza i pugni nell'impasto di farina nella madia, potrebbe essere una mia zia contadina, dato che mia madre era più mingherlina e vestiva sempre abiti tipici del paese, mentre gli abiti di questa signora sono anonimamente di tipo meridionale.
Al forno pubblico, mediamente si facevano tre infornate al giorno ed era il fornaio che ogni volta passava per le case e dava l'ordine alle massaie che potevano panificare.
Esse, intanto, la sera prima avevano "rinnuvàtu lu criscènt", reimpastato il crescente, avuto da chi aveva panificato la mattina, con altra farina onde favorire la lievitazione della pasta per il pane.
Mia madre non aveva figlie e da ragazzo, qualche rara volta l'aiutai a "ammassàni", impastare la farina nella madia; mi pento ora di aver collaborato così poco con lei a questa fondamentale, faticosa ma vitale attività per la nostra piccola famiglia.
Una volta che l'impasto era pronto, dopo circa un paio d'ore di pugni dati alla pasta nella madia, esso veniva sollevato e riposto in una grossa cesta avvolto in una tovaglia (misàle), a sua volta avvolta in una coperta di lana per facilitarne la fermentazione. Quindi, mia madre, dopo un'ora di fermentazione si caricava la cesta sul capo (si 'mpunnéva la cesta 'n capu) e andava al forno, dove avrebbe diviso la pasta in vari pani, posti a rifermentare per breve tempo in cestelli di vimini e canne, prima di infornarli.
Ogni volta si facevano un paio di pizze bianche, cioè non condite, e 6-8 grosse forme di pane (li shcanàte), che dovevano durare 20-25 giorni.
Se il pane ammuffiva (cacciava lu ppirùtu giallu o niéuru - muffa gialla o nera), non si buttava via, ma poiché la muffa era velenosa lo si reinfornava dopo averlo bagnato. In genere capitava che questo tipo di pane fosse più saporito di quello fresco.
Il pane si faceva con farina di grano duro, talvolta miscelata con quella di grano tenero. D'estate, per evitare che col caldo il pane diventasse molto secco, nell'impasto si aggiungeva una certa quantità di patate lesse, che contribuivano a mantenerlo umido e morbido, anche se poi l'umidità lo esponeva alla muffa.
Il pane è il risultato ultimo di una lunga serie di operazioni che, in campagna, cominciano con la semina e terminano con la mietitura.
Poi c'è la macinazione dei chicchi per ottenere la farina. Oggi la si fa con mulini moderni, ma i contadini si lamentano che è difficile ricevere, dopo la macinatura, la farina del proprio grano. E va aggiunto che pochissime famiglie panificano in casa, perché è più comodo comprare tutti i giorni il pane fresco prodotto dai tanti forni sparsi sul territorio. E tuttavia, forse perché sono cambiati i gusti delle nuove generazioni, è molto difficile riscontrare, negli scaffali dei negozi, il buon pane di una volta. 
Durante le due guerre mondiali non tutte le famiglie potevano permettersi il pane di grano, per cui molte di esse panificavano con farina di mais, di orzo e a volte di ceci.
Un tipo particolare di pane, che a me non dispiaceva, era fatto di sola semola di grano duro e che assomigliava, solo vagamente, a quello di segale dell'Alto Adige.

Foto dal gruppo Fb Sicilia Tradizioni - Testo di Angelo Siciliano {jcomments on}

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