Nota in merito a “Cicatiéddru”, Termine dialettale sostituito da “Cicatiello”, scritto sull’arco effimero della sagra del 15 agosto 2014, allestito nella parte orientale di Corso Vittorio Emanuele a Montecalvo Irpino, e su altri documenti ufficiali.
Poiché ho ricevuto da qualche amico una richiesta precisa, esplicito la mia opinione a riguardo del dialetto montecalvese e del termine “cicatiéddru”, gnocchetto prodotto con tre dita di una mano femminile da una biscia di pasta, "cìngulu", sopra una tavola, "tavulìddru", su cui si è proceduto in precedenza a fare un impasto di farina di grano duro e acqua.
Chiaramente mi espongo anche in merito al comportamento discutibile adottato in passato, allo scopo di semplificare, abbellire, depauperare e in conclusione svilire l’autenticità del nostro dialetto.
A Montecalvo, in ossequio alla cultura e alla parlata della piccola borghesia locale, si cominciò a edulcorare il dialetto locale negli anni Sessanta del Novecento, presumendo che, complice la televisione, fosse meglio procedere verso l’italianizzazione della nostra parlata, senza rendersi conto che il dialetto e l’italiano avrebbero potuto convivere tranquillamente, viaggiando affiancati su binari separati.

Responsabilità ne ha avute certamente la scuola che, continuando l’opera del fascismo, sterminatore di dialetti e di lingue minoritarie, demonizzava i piccoli dialettofoni. Così si cominciò a cancellare dalla parlata la cacuminale, vale a dire il suono mediterraneo di tipo occlusivo palatale, indicato con “ddr” o “dd” e presente nella parlata del paese in sostituzione del suono liquido della doppia “l”, come nelle parole “caddrìna, ìddru, puddrìdru, quéddra, quiddru ddrà” (gallina, egli o lui, puledro, quella, quello là). Quindi, “cicatiéddru” diventò “cicatiello”, perché sembrava più bello e facile da pronunciare. Insomma, si pensava di autoemanciparsi adottando un termine, quasi fosse un marchio commerciale e gastronomico, che sarebbe stato accettato facilmente e avrebbe allettato i non montecalvesi e i figli degli emigranti. Fu una scelta nostrana, perché in Calabria, Sicilia e Sardegna la cacuminale è ancora adoperata quotidianamente nelle parlate locali. In Sicilia è di due tipi e in Sardegna è addirittura passata nei cognomi delle persone: Cadeddu, Lodde, Nieddu, Puddu, Pusceddu e Puxeddu (cagnolino, volpe, nero, pollo, di bell’aspetto). Una mia indagine, condotta sul materiale folklorico irpino repertato dall’amico scrittore Aniello Russo, mi consentì di appurare che, all’inizio del XXI secolo, vale a dire l’attuale, in alcuni paesi dell’Irpinia si adoperava ancora la cacuminale ed essi erano Calitri, Lioni, Montella, S. Andrea di Conza e Torella dei Lombardi (v. “Grammatica del dialetto irpino” di Aniello Russo, Avellino 2004). Stranamente, paesi collocati tutti nell’Alta Irpinia, dove più forte è il legame con le proprie tradizioni. Sono pressoché scomparsi il suono della fricativa, che personalmente indico con il gruppo consonantico “shc”, come in “frishchèttu, pishcóne, shcanàta, shcattàni, shcavóne” (fischietto, grosso masso, grossa forma di pane tonda, schiattare, sedano selvatico), e quello laringale, d’origine araba, indicato con “ghj”, come in “agghjurdàni, ghjucà, ghjurnàta, pi gghjìni” (intorpidire, giocare, giornata, per andare). Chi si è reso responsabile o complice, volontariamente o involontariamente, della quasi cancellazione del nostro dialetto, non immaginava che in questo modo sarebbe sparita non solo la lingua degli affetti, ma si sarebbe cancellato un patrimonio linguistico, fatto anche di cultura e del sapere popolare, accumulatosi nei secoli e giunto sino a noi, grazie alla saggezza e all’affabulazione degli antenati. E, tramontata la civiltà contadina, con esso sarebbero spariti la cultura orale, la cultura materiale e il patrimonio immateriale, tutelato dall’Unesco.Visto che in paese, talvolta, si vuole andare alla ricerca dell’origine e dell’autenticità delle cose, bisognerebbe avere l’intelligenza, l’orgoglio, e il coraggio di correggere le scelte errate fatte nel passato, per riappropriarsi della propria identità, anche attraverso il ripristino del proprio dialetto. Così, si dovrebbe ritornare a “Cicatiéddru”, il termine che ci pervenne da metà Ottocento e adoperato, ancora attualmente, dagli anziani dialettofoni, al posto di “Cicatiello”. (Angelo Siciliano – Montecalvo Irpino, 23 agosto 2014) Per chi nutrisse ancora qualche interesse verso queste questioni, questo è il link del mio articolo sul dialetto montecalvese: http://www.angelosiciliano.com/IL%20DIALETTO-DI%20MONTECALVO-IRPINO.htm

 

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